‘If The River Was Whiskey’, il riscatto degli Spin Doctors

Spin Doctors

Il fenomeno Spin Doctors prorompe nel 1992. ‘Two Princes’ e ‘Little Miss Can’t Be Wrong’ sono singoli che trascinano in cima alle classifiche di vendita e di gradimento ‘Pocket Full of Kryptonite’, best seller da oltre sette milioni di dischi. Il quartetto di New York City si ritaglia un posto al sole, ma spesse nubi si addensano all’orizzonte e la vacanza, ben presto, s’interrompe. I Doctors non riescono a fare i conti con un successo tanto appagante quanto impareggiabile. La band si incaglia tra le insidie del trionfo e scompare sia dal circuito che conta, sia da quelle stazioni radio che ne hanno determinato la fortuna con una programmazione in heavy rotation.

Oggi il gruppo torna sulle scene con un background che annovera successi, cicatrici e tanto equilibrio. Il nuovo ‘If The River Was Whiskey’ (titolo fortuitamente identico a quello di una short story di T. Coraghessan Boyle) consente ai musicisti di dissetarsi dalla fonte che tutto ha originato. Non ad un barile di whiskey – come il titolo incoraggerebbe a pensare – ma al blues, sorgente inesauribile di un amore consumato tra i club della Big apple sin agli albori della carriera. In questo album non vi è traccia del manierismo tipico della band commerciale e bramosa di propaganda attraverso le contemporary hit radio. La missione “Spin Doctors 2.0” si ravviva, spinta dalla forza propulsiva della passione, la stessa che esalta l’estro vocale di Chris Barron, i virtuosismi chitarristici di Eric Schenkman, la versatilità ritmica di Mark White e l’intensità percussiva di Aaron Comess.

Per ‘If The River Was Whiskey’ il blues è un mantra ossessivo, è l’unico ambito di applicazione ma è sottoposto ad indovinate digressioni che sprigionano energia – adrenalinico l’incrocio con il rock’n’roll nella splendida title track – o sfumano la tensione, agevolando venature soul (‘So Bad’). Una varietà di stili all’interno dello stesso genere dettata dai diversi periodi di concepimento delle canzoni. La genesi di alcune tracce risale a qualche anno fa, come ‘Sweetest Portion’, autobiografica, scritta da Barron a 19 anni dopo aver appreso che qualcuno alimentava voci sulla sua presunta morte. Canzoni raccolte in questi anni di alti e bassi ma cucite in soli tre giorni, alla vecchia maniera, senza sovraincisioni, nella tranquilla atmosfera dello studio casalingo di Barron, utero protettivo della dimensione artistica, boudoir custode di un relax utopistico per una sala d’incisione.

Il risultato caratterizza le dieci tracce che segnano questo autorevole ritorno. Gli oltre cinque minuti di ‘Scotch And Water Blues’ sembrano dettati da profondo trasporto. L’introduzione risplende nel solco della tradizione e spiana la strada all’evocativo canto di Barron, che apre la scena alla chitarra di un ispirato Schenkman, autore di un assolo avvincente. Grinta a bizzeffe, invece, nel ritmo di ‘About A Train’ (rielaborazione di un pezzo già uscito per ‘You’ve Got to Believe in Something’) ed effervescenza trascinante nel conclusivo ‘What My Love?’. Gli Spin Doctors hanno vissuto la stagione della gloria e non cercano di riprodurre un successo ineguagliabile. In proposito Barron & Co. palesano l’aspirazione di continuare a fare musica dal vivo che suoni autentica. ‘If The River Was Whiskey’ dà l’impressione di imboccare questa strada. E’ l’album che celebra il riscatto dei Doctors, un disco finalmente concretizzato, destinato com’era ad essere inciso dalla band anche solo per chiudere un cerchio. Sarebbe un vero peccato se la critica non desse la giusta importanza a questa sincera proposta discografica.

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