“Mi piaccion le fiabe, raccontane altre”: Francesco Guccini e la sua Ultima Thule

Francesco Guccini è la nostra storia. Ha incarnato per anni quel sentore popolare e contadino che da sempre è stata la parte migliore di quest’Italia sgangherata; ne ha cantato le notti in osteria, le chitarre con gli amici, le utopie, gli ideali e le disillusioni. Ha attraversato cinquant’anni di Storia (alla De Gregori) e del nostro vivere è stato il cantore più coerente, sincero e onesto senza che spesso questo Paese malandato se lo meritasse per davvero. Che ora abbia deciso di fermare qui la sua ‘attività’ da cantautore è una decisione privata che con estremo dispiacere, a noi che siamo sempre stati di qua dalle transenne dei suoi concerti, non tocca far altro che accettare, in un misto di bene, comprensione e tristezza.

Non si può, quindi, parlare de L’ultima Thule senza avere coscienza che questo è davvero l’ultimo album di Guccini e che non ci saranno ripensamenti (quelli li lasciamo ai cialtroni della nostra triste politica). Punto conclusivo di una strada che tra slanci meravigliosi, qualche inciampo qui e là, grandi balzi in avanti e qualche umano passo indietro, ha deciso di interrompersi. Sul più bello, verrebbe da aggiungere. Sono 8 canzoni, a 8 anni dall’ultimo disco di inediti. Canzone di notte n°4 apre l’album, non casualmente: una dolce ‘buonanotte’ che la voce di Guccini mette come incipit, come a dire bisogna spegnere la luce, è ora che io vi saluti. Quella buonanotte è lunga 43 minuti, durante i quali Guccini ci racconta le sue ultime storie. L’ultima volta, intrisa di addii, cose che finiscono, di tramonti, ultimi baci, ultimi amori, ultimi canti.

Su in collina, commovente e appassionato racconto di un pezzo di lotta partigiana, congedo a degli ideali ancora sofferti e sofferenti. Quel giorno di Aprile, uno dei vertici di questo disco, anch’esso qualcosa di molto vicino a un arrivederci. A un’Italia dimenticata che non c’è più, a un popolo che forse non c’è più. A dei profumi e a pezzi di ricordi. Intenso il verso: “E domenica e in bici con lui hai più anni e respiri l’odore delle sue sigarette e del fiume che morde il pontile”. Bello come uno stralcio di film neorealista, come una sequenza di Rossellini. Il testamento di un pagliaccio si prende la briga di contenere tutta l’ironia gucciniana di questo disco, che tutto è fuorché ironico. “Di cosa muore? Muore intossicato da sogni vani di democrazia…”: un po’ è lui quel pagliaccio, un po’ siamo noi, è ogni povero ingenuo che nel lottare tutta la vita si ritrova a morire per colpa de “l’utopia, i sogni, i desideri vani”.

Notti, momenti in cui tutto sembra perdere colore, in cui le cose non hanno più i loro confini, i ricordi si sovrappongono, tutto è leggerezza, poco rumore, soffi di vento, tutto si perde, e si ritrova, prima che torni il giorno. Gli artisti, un leggero tappeto swing in difesa della categoria, sorvolando il mondo dell’arte con un lieve senso ironico, e a conclusione un altro semplice, quanto duro, addio: “Fabbrico sedie e canzoni, erbaggi amari, cicoria, o un grappolo di illusioni, che svaniscono dalla memoria”. La title-track chiude questo cd e tutta la discografia di Guccini. Altro, dopo, non ci sarà. Un testamento che racchiude una vita intera, dell’uomo forse più che del cantautore: “Si perderà in un’ultima canzone, di me e della mia nave anche il ricordo”.

Questo il suo punto finale, il suo (piccolo) addio, detto sottovoce. Questo album vale l’ascolto, e non solo perché è l’ultimo, ma perché dentro ci siamo noi, infiniti, malandati, sognatori, disillusi. Ci siamo noi, molta parte di quello che siamo stati, e tanto di quello che vorremmo essere. E c’è la storia del nostro Paese, quella migliore, quella per cui emozionarsi ancora. E che sia l’ultimo in fondo è, per noi Cyrano, solo un altro, duro, inaspettato e faticoso colpo al cuore.

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  2. 3 Aprile 2013: In dvd il film ‘Francesco Guccini. La mia Thule’

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