‘Love is all you need’, la regista Susanne Bier: “Non mi interessa girare storie d’amore banali”

Nate entrambe il 15 aprile sotto il segno dell’Ariete. Una bella coincidenza per una coppia vincente come la regista danese Susanne Bier e la sua compaesana attrice-cantante Trine Dyrholm che hanno conquistato Golden Globe e Oscar per il miglior film straniero con ‘Un mondo migliore’, e che ora tornano insieme in ‘Love is all you need’ con un cast straordinario incluso Pierce Brosnan. È una commedia romantica che affronta temi drammatici, ma con leggerezza, cinismo e ironia, girata tra Copenhagen e Sorrento. Nella cittadina di mare partenopea Bier e il suo collega sceneggiatore Anders Thomas Jensen hanno scritto molte sceneggiature. “Abbiamo sempre pensato di girare un film lì e quando si è creata la situazione lo abbiamo fatto – spiega Bier – È un luogo ideale, per la sua bellezza fisica, sfacciatamente romantico che si presta per l’amore”.

Il film racconta di famiglia, matrimonio e tradimenti, malattia ed egoismo, verità e perbenismi, innamoramenti e crisi esistenziali, adulti e adolescenti a confronto, e incontri e scontri tra generazioni diverse: tante cariche emotive esplosive. In uscita in Italia giovedì 20 dicembre, già venduto in 40 Paesi, compresi gli Stati Uniti, e accolto con entusiasmo alla recente 69esima Mostra del cinema di Venezia. È difficile raccontare una storia romantica, spesso i film sono banali, parlando di due che si amano, che fanno sempre l’amore e dopo tre giorni di passione si lasciano e tutto finisce. “Invece, io ho cercato la verità e ho voluto rendere tutto credibile, una storia che parla di una giovane coppia che deve affrontare una scelta difficile, che si lascia facendo la cosa più sincera invece che affrontare un finto matrimonio e sbagliare”, dice Bier spiegando che “tutto deve sembrare vero, reale. Abbiamo voluto mostrare il romanticismo attraverso persone con un bagaglio sulle spalle, con tanto dolore e desiderio di una boccata d’aria. Non mi affascinano le storie dei colpi di fulmine che durano un giorno”, continua. “Il mio film non parla di momenti di romanticismo che passano. Non mi prendono le storielle”.

Questo è il suo primo film dopo aver vinto l’Oscar. Cosa è cambiato nella sua carriera?
Ho scritto questa commedia prima di vincere l’Oscar. È divertente avere la statuina sulla scrivania ed è bello pensare di averlo vinto, ma nulla è cambiato nel mio modo di lavorare. Io penso sempre a fare dei film per delle buone ragioni, non per la mia carriera. Devi continuare a fare le cose in cui credi, con impegno e talento. Un premio non deve condizionare il tuo lavoro, e non è una garanzia per nulla. Certo, apre le porte agli attori internazionali.

Pierce Brosnan è uno dei protagonisti che si innamora del personaggio interpretato da Trine Dyrholm. “È stata una grande emozione, lui è una persona incantevole”, dice l’attrice danese, che aggiunge: “Ogni personaggio ha la sua importanza, con le sue sfaccettature, anche le parti minori. Il marito, per esempio (“Leif”, interpretato da Kim Bodnia), è un poveraccio, mi ha fatto anche pena”. Bella l’attrice che interpreta la giovane Astrid, Molly Blixt Egelind, un personaggio stile Bernardo Bertolucci. Spiccano i nasi importanti, anche nelle donne, segno di grande personalità e nobiltà storica. Tra gli attori, un cammeo speciale dell’attore napoletano che ha esordito in ‘Gomorra’, un sorprendente Ciro Petrone, anche lui un naso importante e un ruolo fondamentale del film, assolutamente da non perdere. Si ride e si piange, e si riflette. Si parla d’amore, ma anche di giovani e delle loro problematiche: anoressia, bulimia, autodistruzione, sessualità, ricerca dell’io e di verità, quella dura che fa male, ma che è giusta, per tutti, per la società e per se stessi e soprattutto per l’Amore. E “involontariamente”, come dice la regista, o forse no, c’è anche una metafora che colpisce: la storia di un parassita che attacca gli alberi di limone. Un insetto micidiale, ma solo al femminile che si riproduce asessualmente: il maschio, infatti, non ha neanche la bocca quindi muore perché non può mangiare e pertanto alquanto inutile. “Non era intenzionale, ma solo una spiegazione botanica”, dice Bier, che non sappiamo fino a che punto scherza o è veramente seria.

A un Ariete donna, per giunta ebrea, non può che venire naturale essere ironica e sarcastica. Il senso dell’umorismo è un gene, un cromosoma, una proteina che scorre nel sangue per Susanne Bier, figlia di un ebreo tedesco rifugiatosi in Danimarca durante l’occupazione nazista e di una danese di origini ebreo-russe. Sposata tre volte e mamma di un ragazzo di 22 e una ragazza di 16, avuti da due uomini diversi, sa come affrontare problematiche adolescenziali e conosce bene l’importanza e il valore del concetto di famiglia, grazie ancora una volta alla sua educazione e cultura giudea, che la porta ad avere un “desiderio ossessivo” di avere un rapporto intenso e molto forte con i suoi genitori e parenti, e le care persone che la circondano, perché per lei la “famiglia è un senso di identità”. Curiosità: interessante la scelta del colore giallo, elemento ricorrente del film, dalla prima scena fino ai titoli di coda. E un altro colore che torna spesso nella storia è l’azzurro. Simbolico. Fateci caso.

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