Esperanza Spalding strega il pubblico del Teatro Curci di Barletta

Le luci si spengono. Una ragazza percorre il corridoio laterale della platea e si dirige decisa verso le scale che portano sul palco. Non è una maschera o una spettatrice ritardataria. Ha una folta chioma riccia. È Esperanza Spalding. Una ragazza tra il pubblico sussurra: “È lei”, quasi a voler richiamare l’attenzione dell’amica distratta, che non l’aveva riconosciuta. Da questo momento un silenzio partecipe strega il Teatro Curci di Barletta, chiamato ad accogliere la fresca vincitrice del Grammy Awards 2011 nella sezione ‘Best New Artist’, colei che è riuscita a conquistare, contro ogni previsione, un premio già destinato al brufoloso Justin Bieber (le fan del brufoloso, per la cronaca, hanno ricoperto di insulti e ‘minacce di morte telematiche’ la povera Esperanza).

Dicevamo di un silenzio irreale, evocato dalla stessa Spalding, che con la sua entrata calamita subito l’attenzione dei presenti: una sedia di pelle l’attende ai margini del palco, una bottiglia di vino rosso con un calice sono posizionati su un tavolino. Esperanza accende una lampada, si toglie lo spolverino beige e si siede, versando il vino nel calice e gustandosi quella prelibatezza. Dopo pochi istanti il sipario si alza e dietro di lei compare un trio di archi (Olivia de Prato al violino; Lois Martin alla viola e Jody Redhage al violoncello). Il tempo di sorseggiare ancora un po’ di vino, di togliersi le scarpe ed Esperanza, con un incedere lento, si avvicina al suo amato contrabbasso, imbracciandolo e cominciando a fare dei vocalizzi, che introducono Little Fly, la prima traccia del suo ultimo lavoro ‘Chamber Music Society’ composta dalla stessa Spalding su un testo del poeta romantico William Blake (Little Fly/Thy summer’s play/My thoughtless hand/Has brushed away): è proprio un’atmosfera intima da musica da camera quella che si respira tutto intorno. La leggerezza di Little Fly lascia il posto alla ‘sudamericana’ Knowledge of Good and Evil, mentre sul palco compaiono il maestro Leonardo Genovese al pianoforte, Richard Barshay alla batteria e ai cori Leala Vogt, la rivelazione di questo concerto perché capace di essere un vero e proprio alter ego vocale della Spalding. Improvvisazioni jazz, controcanti e saggi di tecnica del contrabbasso ci conducono alla ritmata, quasi gitana, Chacarera, composta dal pianista Genovese, argentino trapiantato negli Usa. La cover di Wild is the wind è disturbata da una lieve interferenza al microfono. Un tecnico si precipita sul palco e la Spalding intona la frase “Nothing is perfect” (“Niente è perfetto”, ndr), quasi a voler giustificare il fuori programma.

Dopo Short and sweet, cantata, suonata e fischiettata, ecco una delle canzoni più sublimi del disco, Apple Blossom, che narra di due innamorati divisi da un destino crudele: la donna aspetta un bambino ma muore prima di dare alla luce la sua creatura; l’uomo attende ogni anno l’arrivo della primavera per raccontare all’amata, sepolta sotto il melo, quanto sia triste la sua vita senza di lei. Con la cover di Inútil Paisagem di Jobim, la bravura della cantante Leala Vogt viene fuori: non solo cori, ma controcanti e simulazione di percussioni con il solo uso delle mani. Il concerto si conclude con Winter sun e Really very small. La Spalding si dirige verso la sedia di pelle al lato del palco, accolta da applausi scroscianti. Si siede, beve un po’ di vino, poi si riveste e si mette le scarpe mentre il sipario si chiude dietro di lei. Poi, scompare nel buio dall’uscita laterale dov’era entrata all’inizio dello spettacolo. Ricomparirà sul palco per salutare il pubblico e presentare la sua band. “Grazie per avermi invitato in questo bellissimo teatro. Buonasera!” e, per concludere, un piccolo omaggio pianoforte e voce, Fall in, tratto dal suo precedente album (Don’t worry if we fall in love / We will never touch the ground /Just fall into a dream). “Thank you, Italia. Buonasera”, e il sogno finisce anche per noi.

Di seguito, il finale del concerto:

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