Luca Bigazzi, “La grande bellezza” della fotografia nel cinema

Luca Bigazzi

Nelle ultime settimane “La grande bellezza” è stato uno degli argomenti più discussi in Italia e all’estero. Il film di Paolo Sorrentino ha fatto incetta di riconoscimenti internazionali fino ad arrivare all’ambitissimo premio Oscar nella categoria “Miglior film straniero”. Un traguardo importante non solo per il regista e la squadra ma anche per tutto il cinema italiano che ritorna a far parlare di sé. Tra i motivi dell’immenso successo di questo film c’è sicuramente l’ottimo lavoro di coloro che hanno permesso che risultasse anche tecnicamente un gioiello della cinematografia nostrana, creando un’atmosfera magica, riuscendo a rendere il dovuto omaggio alla città di Roma, che per certi versi è anch’essa protagonista del film, e completando quanto di buono fatto dagli attori, Servillo su tutti. Abbiamo contattato Luca Bigazzi, direttore della fotografia non solo de “La grande bellezza” e di molte altre pellicole di Sorrentino, ma anche di tante altre opere di grande spessore, e abbiamo parlato con lui del suo lavoro.

Spesso la definizione di “Direttore della fotografia” non è chiara o viene fraintesa. Lei come spiegherebbe a chi non è del mestiere il suo lavoro?
Innanzitutto direi che sono uno dei numerosi collaboratori del regista. Bisogna saper lavorare con tutti i membri della troupe: per farti un esempio, spesso mi trovo ad utilizzare le luci messe in campo dallo scenografo e il mio unico merito, in quel caso, è di valorizzarle o di usarle come unica fonte di luce. Tante volte poi capita che la fotografia sia bella proprio perché il film è girato in un posto affascinante e cinematografico, ed è sicuramente il caso de “La grande bellezza”. Chiaramente, in base alle indicazioni del regista e in perenne lotta con le limitazioni del budget, io a mia volta cerco di utilizzare delle luci che abbiano un senso e che diano al film ciò di cui spero abbia necessità, perché il mio compito è quello di mettermi al servizio del lavoro che sto realizzando piuttosto che adattarlo ad un mio gusto personale. Aggiungo, infine, che il risultato del mio lavoro è al 75% legato all’essere anche operatore di macchina e a lavorare molto sull’inquadratura e non solo su ciò di cui si occupa il direttore della fotografia, cioè le luci. Onestamente credo che conti più un’inquadratura ben fatta piuttosto che una luce elegante, anche se mi rendo conto che questa sia una frase pericolosa (ride, ndr).

Come e perché ha iniziato a fare questo mestiere?
Ho iniziato questo mestiere per due motivi: il primo è perché negli anni ’70 a Milano esistevano dei cineclub, che oggi per noncuranza delle istituzioni non esistono più, uno fra tutti l’Obraz Cinestudio di Enrico Livraghi, dove ho visto le centinaia e centinaia di film grazie ai quali è nata la mia passione per il cinema; il secondo è stata la fortuna di avere come compagno di liceo il regista Silvio Soldini. Con lui, che diversamente dalla mia formazione di autodidatta, il cinema lo aveva studiato a New York, iniziammo a fare dei piccoli film autoprodotti e totalmente indipendenti. Gli anni ’80 erano un momento fortunato: iniziavano ad essere commercializzate delle pellicole sensibili e delle ottiche più luminose e questo mi ha permesso di iniziare con un metodo che ancora oggi spero di non aver abbandonato: poche luci, grande leggerezza e velocità.

Da diverso tempo ormai lavora in film diretti da Paolo Sorrentino con ottimi risultati e il successo de “Il Divo”, “This Must Be the Place” e “La grande bellezza” parla chiaro. Come è nata questa collaborazione e che persona è il regista?
E’ un grande regista, molto coraggioso e molto “spiazzante”. Paolo ha questa favolosa qualità, di saper rilanciare ogni volta, come un giocatore d’azzardo, su un soggetto sempre più difficile e impegnativo. I suoi film sono tutti interessanti perché è lui a concepirli così innovativi. Non è merito mio, io cerco solo di seguire la furibonda velocità con cui lui gira e questo è l’unico merito che mi prendo, quello di essere veloce, mentre il resto è tutta farina del suo sacco. Abbiamo iniziato insieme con “Le conseguenze dell’amore”, un meraviglioso piccolo film fatto con pochi soldi. Poi mi preme ricordare “Il Divo”: un film che a vederlo sembra ricchissimo ma che in realtà è stato realizzato con un budget molto ridotto perché, come puoi immaginare, nessuno voleva finanziare un film su Andreotti. La capacità di Paolo è stata quella di mettere a frutto le poche risorse creando un film visionariamente straordinario.

Tra i punti di forza de “La grande bellezza” c’è anche, ovviamente, la splendida immagine che si fornisce di Roma, una città immortale, bella e viva di giorno, affascinante e misteriosa di notte. In cosa si è concentrato per realizzare al meglio il suo lavoro per questa pellicola e che ne pensa del successo che essa ha ottenuto?
La cosa difficile de “La grande bellezza” è che è un film che vive molto di discontinuità fotografiche. Utilizziamo in alcune situazioni una luce calda, avvolgente e anche molto elegante, e invece in altre scene si cerca di trasmettere la volgarità e la fraintesa modernità con luci sovraesposte ed anche pacchianamente colorate: penso alla feste e ad alcuni interni borghesi. E’ un film che ha irritato alcune persone perché si sono sentite toccate nel vivo e questo è il segno della sua riuscita. Genera o grande amore o grande odio. Credo inoltre che abbia messo a tacere un po’ le inutili polemiche che riguardavano l’improduttività del cinema italiano perché quest’ultimo è non solo molto complesso e variegato, con autori diversissimi tra loro, ma è anche un cinema che allo Stato costa praticamente un’inezia e che restituisce molto più di quanto prende: penso all’apporto turistico che può dare ad una città, come nel caso di questa pellicola. Essa dimostra che con la cultura si mangia, a differenza di ciò che vogliono far credere Tremonti e Brunetta. Negli ultimi 20 anni la cultura in Italia ha vissuto un periodo difficile ma il nostro è un Paese che è nato sulla cultura, che vive di essa e per fortuna continuerà a produrla. L’altro giorno ho sentito in pescheria un pescivendolo a cui il film in televisione non è piaciuto e il commento è stato: “Il film fa schifo e io lo pago”. No, il pescivendolo, vittima della propaganda politica televisiva, non solo non lo ha pagato ma, come tutti noi, avrà invece qualcosa da questo film se si considera il ritorno di immagine che “La grande bellezza” ha portato al nostro Paese.

Nel suo campo è uno dei più apprezzati in Italia grazie ad una carriera iniziata 30 anni fa e a numerosissimi premi, penso ad esempio ai 6 David di Donatello nella categoria “Miglior direttore della fotografia”. Che consigli darebbe a chi vuole intraprendere il suo stesso percorso professionale?
I premi lasciano il tempo che trovano, per quanto mi faccia piacere riceverli, ovviamente. Il consiglio che voglio dare è più o meno quello che ho già detto: è un mestiere che si deve fare collettivamente, collaborando insieme. Fin dagli inizi si devono cercare i collaboratori e le competenze necessarie fra gli amici interessati a questo lavoro. Si deve agli inizi ricorrere alla produzione indipendente ed oggi con il digitale questo è possibile più che nel passato. Io detesto il romanticismo legato all’idea che la pellicola era meravigliosa e il video non lo è più. Il video è un’innovazione fantastica, economica e di altissima qualità per fare dei film che in altri tempi si sarebbero dovuti produrre con investimenti economici inaccessibili. Spero anche per questo che i giovani non abbiano nessun rimpianto per la pellicola. Quindi, per concludere, quello che posso consigliare è semplicemente di non essere “romantici”.

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