Artbreak Project, il mondo in 54 stanze. Gli attori dell’arte vivono attraverso i nostri sonni e sogni

Ye Olde Carlton Arms Hotel

Non è un hotel a 5 stelle, ma un hotel Superstar. Già il nome mostra una spiccata personalità: Ye Olde Carlton Arms Hotel. È nella città di New York, nella parte bassa est di Manhattan, a 15 minuti a piedi dall’Empire State Building e 15 dal Greenwich Village. A due passi, tra l’altro, dall’abitazione di Julia Roberts, tra le star di Hollywood che soggiornano anche a New York. L’albergo attira ospiti da ogni luogo del mondo: qui atterranno “stelle” dai cieli dei cinque continenti. Ognuna delle 54 camere da letto è un’opera d’arte, dipinta da un artista internazionale, alcuni di fama mondiale, altri emergenti. Fanno tutti parte di un progetto chiamato “Artbreak”.

Gli artisti vengono a soggiornare per un breve periodo, si amalgamo lentamente con le mura della palazzina a quattro piani e poi propongono un’opera d’arte per la realizzazione di una stanza, lasciando il loro “marchio”, ma solo dopo essersi ambientati e aver fatto amicizia con i principali padroni di casa: Hugo Ariz, filmmaker, gallerista argentino-italiano, è uno dei manager dell’albergo assieme al raffinato John Ogren dallo stile e dalla sensibilità inconfondibili, e Andrew Hickey, “mastro carpentiere-artista” britannico a New York da decine di anni ormai. “Quando c’è feeling e troviamo che vi sia una bella sensazione ci scegliamo a vicenda noi e gli artisti – spiega Andrew – E così nasce un nuovo pezzo dell’albergo, un’altra opera d’arte che si aggiunge al progetto”. Con i tre principali manager lavora anche il polacco Darek Solarski, fotografo e pittore che qui ha trovato “la felicità”. “L’albergo è un’opera d’arte in continua evoluzione”, dice Hugo. “È un progetto in movimento. Ogni anno rinnoviamo 4/5 camere”. Alcuni artisti tornano a casa o proseguono altrove il loro cammino artistico. Altri non lasciano più l’albergo, portando le loro vite a “Gotham City” dove culture e cuori si incrociano.

Copia dell’originale, negli Stati Uniti la troviamo a Miami. Poi c’è una versione giapponese oltre a quella di Berlino e Parigi. L’idea è nata 25 anni fa a New York. Decadente e affascinante, romantico, bohémien e d’élite, caldo e accogliente, il Carlton Arms sembra una casa, anzi un college che rende giovani, soprattutto per ospiti come Joanna Satire, giornalista newyorkese che lavora in Italia e che, quando torna nella sua “hometown”, alloggia in una delle camere più originali del mondo. “La 1D sembra fatta apposta per me”, afferma. “È dipinta da un artista camerunense arrestato per proteste contro il governo e che sulle pareti urla il suo appello alla libertà di stampa contro ogni censura”. È il matrimonio di Heinz e Pauline a portare Joanna di nuovo qui. Un San Valentino speciale per la coppia che vive in Australia. Lui, artista austriaco, cittadino del mondo, detto “Heinz” è Andre van der Kerkhoff, lei è Pauline, nuovazelandese, deliziosa, occhi pieni d’amore, entrambi vivono in Australia. L’albergo porta naturalmente anche la firma di Heinz, eclettico artista, pittore, ha realizzato tra l’altro la “lobby” assieme ad Andrew. Il suo black humor dà vita e rigenera. Per Heinz e Pauline il Carlton Arms non è solo un progetto d’arte, ma rappresenta “amore, riconciliazione, amicizia e armonia”.

Per molti può, infatti, essere un luogo adatto a un ritiro spirituale. John è un ex seminarista che non ha mai abbandonato il suo percorso spirituale. Il Carlton Arms per lui come per molti è un “centro spirituale dove si coltivano amore, gentilezza e spirito di generosità che provengono da un luogo più grande di noi stessi”, dice. “C’è un’opera d’arte qui che parla della ‘Creazione’ ed esprime molta rabbia verso la Chiesa, non verso Dio. Raffigura anche l’utero della Vergine Maria circondato dallo sperma. La mia spiritualità è profonda, ma mi diverte anche il lato ridicolo di ‘Dio’, che per me non è un ‘padre’, ma casomai un genitore. Non è un ‘lui’ o una ‘lei’ e neanche ‘esso’, ma è molto di più e tutto questo insieme”, tuona John. Parlando dei nuovi artisti che alloggiano temporaneamente nell’albergo impegnati nelle loro opere d’arte, come Alexandra Wolkowicz, polacca-tedesca, che crea anche unici e strepitosi gioielli-sculture di bronzo e ottone, di una creatività angelica e un fascino rinascimentale, oppure la francese Eléonore Josso, pittrice energetica, scattante, estremamente precisa e produttiva che non perde un colpo, entrambe molto belle quanto le stanze che hanno realizzato: “Il bello di questo posto è che è sempre diverso e loro danno vita all’albergo”, dice Hugo un tempo proprietario di una galleria d’arte a Brooklyn. “Penso che gli artisti abbiamo bisogno di uno spazio dove esprimersi e non solo dove esporre”. La galleria fu inaugurata in uno dei peggiori periodi per l’economia mondiale, nel 2007, e infatti chiuse nel 2010, dopo soli tre anni. “Abbiamo spostato la galleria nell’albergo”.

Tra installazioni, dipinti e performance, qui vengono accolti uomini d’affari in giacca e cravatta, famiglie con bambini, eleganti anziani americani in visita nella città dove tutto è possibile. Ognuno con uno spirito artistico, amanti dell’arte. È un museo contemporaneo, un quadro tridimensionale, una live-performance. Ma sembra un teatro, un film. E infatti, Hugo ne farebbe una commedia. “Accadono cose incredibili qui, ho delle storie buffissime da raccontare. Una volta, per esempio, una signora venne giù alla concierge per dire che nella sua stanza c’erano dei fantasmi. In realtà non aveva tutti i torti”, racconta Hugo mentre sorride sotto i baffi. Un tempo, infatti, vivevano qui alcuni senzatetto che rimasero fino alla fine della loro vita terrena. Alcuni hanno traslocato definitivamente, ma due in particolare, “Charlie e Fidel”, sono rimasti all’ultimo piano. Vivono qui anche un gatto di nome Ophelia che di inverno si appisola spesso accanto a uno dei radiatori caldissimi di ghisa oppure salta elegantemente o corre di scatto nei corridoi. Gironzola ogni tanto anche qualche personaggio strambo, ma affettuoso e totalmente innocuo, tutti sorridenti, molto sensibili, estremamente colti, con una storia personale da raccontare come un libro vivente. Il proprietario è il signor Chu, un Taiwanese che si fida ciecamente dello staff artistico e lascia loro carta bianca per dipingere muri e pavimenti come meglio credono. Ovviamente, l’albergo, non ha prezzo e quindi non è assolutamente in vendita. In più, l’albergo non fa alcun tipo di pubblicità, ma vive di “passaparola”. In 25 anni ne sono passati di artisti, tutti riconoscibili per l’umiltà e la semplicità, la loro arte parla per loro, quelle pennellate sono cibo per l’anima, come pagnotte di pane di qualità che non solo sfamano e saziano, ma offrono gusto e sapore. Tra i più famosi spiccano Bansky, artista e scrittore britannico, dall’identità misteriosa. È uno dei maggiori esponenti dell’arte di strada, i suoi stencil fanno satira politica, cultura ed etica. Anche due italiani, Diana Manni e Bettino Francini, hanno partecipato nel 1996 alla realizzazione del corridoio all’ultimo piano dell’hotel.

Il 7 marzo si terrà l’inaugurazione delle nuove stanze realizzate da nuovi artisti che ora fanno parte del progetto. Altra novità: la pace battezza l’arte in una città inquinata dal rumore grazie a un piccolo parco che si erigerà davanti all’albergo in una strada diventata di recente pedonale, cosa rara per Manhattan. Imprecano solo i tassisti, attanagliati in un ritmo frenetico con il tassametro in testa che gira a suon di soldi, costretti ora a fare il giro del “block” per tornare sulla loro “retta via” verso il guadagno di un’altra corsa e di un’altra mancia. Al Carlton Arms, invece, regna la calma, nessuno corre dietro al 10 o al 20% di “bonus” perché il premio per loro è quello di farvi stare bene e farvi amare l’arte, farvi sentire parte integrante del progetto. “È emozionante vivere nel mondo colorato dell’Artbreak Project”, pregno di entusiasmo e affiatamento”, dice Catherine Goldstein, un’altra ospite della struttura. “Ti senti artista e tocchi il cielo più di quanto si riesca a fare stando al ‘top floor’ di uno ‘skyscraper’. L’unico difetto è la polvere per via della moquette. Sotto c’è il parquet, ma è soffocato. Chiedo a Masuda, il laborioso giapponese incaricato delle pulizie, di convincersi che per l’igiene del legno si richiede meno impegno che per una moquette vecchia e consumata e che gioverebbe alla salute di tutti. Dedicherei una stanza al respiro come mezzo per arrivare all’amore incondizionato”.

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