L’Emilia e le tradizioni dell’Appennino secondo Lassociazione

Nove musicisti hanno dato il via nel 2010 a un singolare progetto denominato Lassociazione. Marco Mattia Cilloni, Giorgio Riccardo Galassi, Gigi Cavalli Cocchi, Francesco Ottani, Filippo Chieli, Enzo Frassi, Massimo Guidetti, Marcello Ghirri e Gianfranco Fornaciari, reggiani doc, cantano in italiano e dialetto, e qualche mese fa hanno pubblicato il loro secondo lavoro, ‘A strapiombo’, un signor album, che parla dell’Emilia, in particolare delle sue montagne, della sua gente e del rapporto primitivo tra uomo e territorio. Abbiamo intervistato Marco Mattia Cilloni (voce, chitarra), Giorgio Riccardo Galassi (voce, armonica) e Gigi Cavalli Cocchi (batteria), quest’ultimo noto anche per le sue esperienze professionali con i Clan Destino, CSI e il Ligabue degli esordi. Non potevamo non parlare anche del terremoto che ha colpito la loro terra nel maggio scorso.

‘A strapiombo’: come si collega il titolo del disco alle altre canzoni?
Giorgio: ‘A strapiombo’ è la nostra condizione di vita nel mondo moderno e, ascoltando il disco, si capisce quanto la vita pulsa forte in tutte le canzoni.

Giorgio, mi ha colpito una frase del tuo monologo, nello specifico “Il tempo che ci invecchia è il tempo che ci conserva”. Qual è il suo significato?
Giorgio: Non c’è distinzione nel tempo, bisogna vivere l’oggi. Invecchiare vuol dire conservare e vivere con la coscienza che un finale già scritto può diventare una bella cosa.

Vi siete isolati in montagna per tutto il tempo della registrazione del disco. Com’è stare a stretto contatto con l’Appennino?
Gigi: Alcuni di noi ci abitano già. C’è invece chi, come me, pur essendo residente a Reggio Emilia, ha un legame molto profondo con l’Appennino. Ho una casa a Carpineti (stesso paesino dove da anni vive Massimo Zamboni) e appena posso mi rifugio per rincontrarmi con la “Madre Terra”. Solo in quei posti riesco a sentirmi in pace e a “respirare”. Sono convinto che molte persone, potendo, ritornerebbero a questa qualità di vita, una scelta di semplicità, un gioco in sottrazione, in un mondo che va esattamente dalla parte opposta ad una velocità innaturale. L’Appennino è un grande abbraccio dove è bello stare.

Giorgio: Magari fossimo stati come Thoreau due anni in una capanna sul lago Walden… Tornare al moderno è frastornante; adoro il silenzio della natura e conosco le parole degli alberi.

Il rapporto tra uomini e natura non è sempre facile. A volte la terra si ribella, com’è accaduto con il terremoto. Com’è la situazione in Emilia?
Gigi: La provincia di Reggio ha vissuto solo di riflesso l’evento, ma i contraccolpi psicologici sono stati fortissimi. Nei paesi più vicini al modenese, intere famiglie preferiscono dormire in tenda o comunque fuori casa. Anche nella nostra zona, il 15 ottobre 1996, c’era stato un forte terremoto (magnitudo 5,4) con gravi danni che solo per la conformazione del nostro sottosuolo non si è trasformato in qualcosa di altrettanto devastante. Il ricordo di quei giorni, però, ci fa sentire molto vicini allo stato d’animo delle persone colpite.

Il rapporto tra Emilia e Stati Uniti è molto forte da sempre, nel rock e nel folk. Le sonorità del vostro disco, pur avendo elementi della tradizione, sono molto legate a quelle americane. Cosa rappresenta per voi quella cultura musicale?
Giorgio: Se parliamo dei testi, tutto ciò che coinvolge il mio percorso letterario-musicale basa le sue fondamenta nella letteratura americana di metà e fine ottocento. Thoreau, Whitman, Dickinson, London per dirti qualche nome a me caro. Se leggi ‘John Barleycorn’ di London capisci quanto l’Italia sia dentro alla narrativa americana. Non dimentichiamo che siamo un popolo di emigranti e tra il 1880 e il 1920 sono andati in America 5 milioni di italiani, portando tradizioni e storie che poi si sarebbero intrecciate con il popolo del nuovo mondo.

Marco: Sì, hai perfettamente ragione. È sempre esistito un legame particolare tra la nostra terra e gli Stati Uniti. Personalmente ti posso dire che il mio background musicale attinge nella musica tradizionale americana partendo dal blues al folk, per arrivare al rock ‘n’ roll. L’ensemble de Lassociazione è vasto e ricco di influenze: abbiamo musicisti jazz, rock, bluegrass e tutti hanno radici musicali precise.

Gigi: Personalmente ho sempre amato di più la musica anglosassone, che ho sempre trovato più innovativa in campo musicale, ma il mio legame con la musica americana è importante: ho iniziato a suonare la batteria sull’album ‘Homecoming’ degli America, ‘Harvest’ di Neil Young fa parte dei famosi 10 dischi da portare sull’isola deserta e ho una vera adorazione per David Crosby. E’ indubbio che queste passioni, insieme a quella per il folk/rock degli anni ’70, abbia segnato i miei gusti, e trasferirli nella nostra musica è stato molto naturale.

Gigi, hai sempre alternato la tua attività di musicista a quella di grafico. Mi ha colpito la copertina di questo disco: una montagna con le sembianze di un uomo con il capo chino, però. Cosa volevi comunicare?
Gigi: Essere coinvolto su più livelli in campo creativo mi ha sempre affascinato. L’immagine della copertina del disco che stai contribuendo a creare cresce nella tua testa piano piano, di pari passo con la sua realizzazione. Poi, quando la considero a fuoco, la esterno e in genere la prima idea che mi viene è quella giusta: è accaduto con i dischi di Ligabue, dei Clan Destino, dei Mangala Vallis. ‘A strapiombo’ non poteva essere da meno. Quando con Marco e Giorgio è venuto fuori il titolo dell’album e i concetti che lo giustificavano, è stato un tutt’uno vedere prendere forma nella mia mente quell’immagine. Mi piaceva metter in evidenza il legame tra l’uomo e la terra fino a far confluire l’uno nell’altro. Partendo dall’alto, è l’uomo che diventa montagna; vedendola dal basso, è la montagna che diventa uomo. L’immagine vuole raccontare questo legame tutto nostro ma anche il nostro vivere così “a strapiombo” sia per la lotta del quotidiano che per i nostri sentimenti spesso portati al limite.

Parliamo del tuo percorso artistico nello specifico. Cosa ricordi dell’esperienza con i Clan Destino agli esordi della carriera di Ligabue?
Gigi: Molto entusiasmo e una magia incredibili. Eravamo riusciti a creare un clima di totale positività. Eravamo una realtà anomala per il panorama italiano, se vuoi molto artigianale, nel senso che ogni cosa nasceva all’interno della nostra “family”, ma con una spontaneità assoluta. Non esistevano limiti, lavoravamo su un album e lo consegnavamo praticamente già completo sotto tutti gli aspetti, dagli arrangiamenti alla grafica. Gestivamo ogni cosa tra noi, l’idea dello spettacolo, le scenografie, il merchandising. In questo senso il nostro produttore Angelo Carrara, scomparso quest’anno, ci lasciava molto liberi. Dal vivo poi eravamo una forza della natura. Ovvio, oggi Luciano è uno dei più grandi artisti in circolazione e quelle dinamiche non sarebbero più percorribili, ma molto di quel lavoro fatto all’epoca e quello spirito così unici hanno fatto la differenza e messo le basi per questo enorme successo.

Com’è stato tornare a suonare con il Liga dopo la separazione di metà anni ’90?
Gigi: Nel 2005 ma anche nel Campovolo 2.0 dell’anno scorso. La cosa più positiva è stata quella di rendersi conto di come il tempo non avesse scalfito l’empatia che si crea quando suoniamo insieme, quel suono tipico che ci viene costantemente riconosciuto da fan e addetti ai lavori. L’altra grande soddisfazione è stata quella di esserci ritrovati umanamente e di essere stati bravi a salvare solo il meglio della nostra storia durata dall’89 al ’94.

Il brano ‘Lui non ci sarà’, incluso nell’album di debutto dei Clan Destino, fu reinciso da Fiorello. Vi fece piacere?
Gigi: Fummo molto sorpresi dalla richiesta di Fiorello, ma questo ci fece anche capire quanto una buona canzone possa non dipendere dal genere nella quale la si immagina. La cosa più curiosa è che, dopo un po’ di tempo, chi ci sentiva dal vivo, senza aver ascoltato il nostro album, ci chiedeva come mai eseguissimo un brano di Fiorello…

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