DDG Project, il Chaos come mescolanza di suoni e culture per creare l’antigenere

‘Chaos’ è il primo disco del DDG Project, un’idea artistica che ruota intorno alla figura di Davide Di Gregorio, compositore e arrangiatore di origine campana che, ispirandosi al concetto di Esperanto, mescola idiomi, culture e sonorità contrastanti per abbattere le barriere culturali, musicali e artistiche. Il cd vanta collaborazioni con musicisti di fama internazionale: da Cara Coleman e Josh Duham ai produttori Dave Pemberton e Simon Gogerly. Newsmag.it ha intervistato di Gregorio.

Davide, hai definito il tuo album un mix di linguaggi musicali che creano un ‘anti-genere’. Puoi spiegarci meglio?
Il termine ‘anti’ è utilizzato nell’accezione pacifica, non guerrafondaia. Mi piace pensare all’anti-genere come a una formula lessicale capace di esprimere il concetto di una totale assenza di confini artistici e creativi, e il bisogno di non essere etichettati con uno stile musicale; non mi piacciono i progetti che portano un genere. La mia firma è eclettica, e l’obiettivo era quello di mescolare i linguaggi e le diverse sonorità, e di fare di questo contrasto l’essenza, la materia prima del disco: non volevo annoiarmi, insomma.

Ti ispiri all’Esperanto, ossia alla mescolanza di lingue e culture differenti: ciò rende il tuo disco assolutamente ‘democratico’, nel senso che potenzialmente potrebbe essere pubblicato in tutti i Paesi. Era questo l’intento?
L’intento dell’album si sostanzia nel piacere di passare da un linguaggio musicale a un altro senza barriere culturali o sociali, poiché il limite più grande che ci possa essere consiste proprio nel porsi dei confini. Ovviamente l’obiettivo è di diffondere il disco il più possibile e in più Paesi.

‘Chaos’ è un progetto che spazia dalla musica alle arti visive. Qual è l’obiettivo di questo mix di forme artistiche?
Essenzialmente di tratta di un progetto musicale che si è servito delle arti visive per ampliare il messaggio ed essere più comunicativo, attraverso la pluralità e la mescolanza di musica e immagini, offrendo agli spettatori spunti di riflessione interessanti. Stessa cosa per il videoclip: non volevamo un video banale, convenzionale, ma qualcosa di diverso, che rappresentasse l’idea di Chaos come ordine e specchio della vita quotidiana urbana. L’abbiamo girato per le strade di Madrid, città che offre moltissimi stimoli e ha uno degli aeroporti più grandi, dal quale partono ogni giorno voli per ogni Paese. Il video si ispira all’estetica della street art, ai graffiti di Bansky e Obey e ai fumetti di Ari Folman, il tutto mescolato a chiari riferimenti alle correnti artistiche del realismo e surrealismo di Dalì. Abbiamo riproposto il gioco delle ombre sul muro e inserito anche il mio punto di vista. Poi il regista ha avuto delle intuizioni pazzesche.

Il disco è stato registrato tra Londra, New York, L’Avana, New Orleans e Athens. In che modo ti hanno influenzato le culture e gli stili musicali di questi posti?
La scelta di questi luoghi non è stata casuale. A Londra ci sono stato per vissuto personale e per conoscenze. Cuba, invece, è stata una meta fortemente voluta, per curiosità. E’ incredibile come un’isola possa contenere al suo interno tutta quella cultura, storia e musica. ‘Walk away’, un brano della tracklist nel quale si propone il contrastante incontro tra il ritmo delle congas e il suono duro della techno, è stato frutto del mio soggiorno a Cuba. E poi c’è l’America, ultimo anello della catena e tappa essenziale per chiudere il cerchio e completare questo tipo di sound. New York è un luogo che offre una quantità di stimoli pazzeschi, una città a sé, separata dal resto degli Usa.

Il tuo album è ricco di collaborazioni con musicisti di fama internazionale. E’ stato difficile coinvolgere questi artisti?
No, in realtà è stato tutto molto semplice, naturale. Queste collaborazioni sono nate da un rapporto di stima reciproca. Ci sono Cora Coleman e Josh Dunham (la sezione ritmica di Prince e Beyoncé), il percussionista Giovanni Hidalgo, i producers Dave Pemberton e Jonh Kane. Tutti i musicisti coinvolti hanno appoggiato il mio modo diverso di fare musica.

Ogni traccia nel tuo album racconta una storia, un pezzo di vita da te vissuto e che hai voluto riportare in questo progetto. C’è qualche aneddoto particolare, magari legato ai numerosi viaggi, che ha ispirato uno dei pezzi del disco?
Sono diversi i luoghi che mi hanno ispirato. Sono stato a New Orleans, una città colorata, nota per il suo carnevale, con una grande eredità culturale… ho iniziato a farmi dei viaggi mentali pazzeschi. E’ stata una tappa importante, mi ha fornito spunti visionari: lì è nata ‘The Genie’. E poi c’è stata Atlanta, città fondamentale per la cover dell’album e dove ho visitato il museo di Martin Luther King. La storia della copertina è interessante: l’immagine rappresenta un frammento del ‘World Wall For Peace’, un’opera, situata ad Atlanta, che unisce artisti conosciuti e non per diffondere i messaggi di pace e fratellanza attraverso lo strumento dell’arte. Sono molto contento di aver ottenuto dalla fondazione il permesso di utilizzarla, dal momento che esprime in maniera perfetta il fine ultimo del disco, ossia quello di eliminare i confini culturali e sociali, in nome di un linguaggio universale della musica.

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