Fadà, un pazzo fatato tra Joyce e Petrolini

Qualche settimana fa vi abbiamo segnalato il nome di Fadà, un giovane artista della scena indipendente italiana. Il suo disco d’esordio, ‘Polvere di musica’, ci ha colpiti per la sua originalità e audacia, così abbiamo deciso di intervistare il deus ex machina di questa creazione, William Fusco. Di seguito le sue ‘pazze’ risposte alle nostre curiosità.

Fadà: come mai hai scelto questo nome d’arte?
Se ci pensi i nomi non si scelgono mai, te li appiccicano. Mi chiamava così una mia amica francese, mi diceva “William tu es un fada”, che sta per ‘pazzo’ in argot (slang, ndr). Non aveva tutti i torti… Del nome mi piaceva la sonorità francese, in più all’orecchio italiano dà quel tocco un po’ chic che non guasta. Da poco ho scoperto che in veneziano significa fatato: un pazzo fatato, non mi posso lamentare.

Prima del tuo debutto solista, hai fatto molta gavetta. Quali sono state le esperienze artistiche più importanti?
Dalla classica cover band, con la quale ho iniziato a rompere le scatole e i timpani ai vicini, sono passato a cose più serie. Con piacere ricordo il gruppo molisano Reevoluto, prodotto dalla Etnagigante di Roy Paci; con loro facevamo uno show aggressivo e tirato. Io mi presentavo sul palco con un frac fatto di carta di giornali, che puntualmente mi strappavo durante il concerto, mentre li dirigevo con una bacchetta da direttore d’orchestra, parodia divertente del più serioso personaggio orchestrale, il tutto in mezzo a inserti recitati e di rumoristica vocale.

Direttore d’orchestra per scherzo e polistrumentista nella realtà. Che strumenti sai suonare?
Ho iniziato, da autodidatta, con la batteria, imparando dai dischi che ascoltavo. Qualche anno dopo ho iniziato con la chitarra elettrica, poi a Perugia ho studiato un anno con un bravissimo chitarrista jazz, Marco Acquarelli, e armonia con un altrettanto eccellente musicista, che si chiama Daniele Mencarelli. Da loro ho appreso quel po’ di mestiere che nel tempo mi è servito per decifrare tutto quello che mi ha portato al disco. Il mandolino l’ho scoperto da poco, insieme ad un altro strumento venezuelano che si chiama el cuatro, mentre da poco ho iniziato a studicchiare il pianoforte.

Arriviamo a ‘Polvere di musica’, in particolare ai testi del disco. Sono molto ricercati e si nota il lavoro che hai fatto nella scelta delle parole. Musica e testo: quanto è difficile coniugarli in una canzone?
Non è né facile né difficile, diciamo che scrivere un testo è una specie d’avventura: quando c’è una musica che già di per sé ti sta dicendo qualcosa, non ti rimane che assecondarla e accompagnarla. Non devi forzare; le parole devono essere musicali. Io non faccio altro che cercare di farne venire fuori il suono, ma questo me lo ha insegnato la letteratura, non un corso di scrittura creativa.

Sicuramente hai dei riferimenti letterari. Ne ‘Il cappellaio matto’, per esempio, c’è un accenno a Walt Whitman…
Walt Whitman è finito nella canzone sulla fiducia, nel senso che di lui conoscevo ben poco. Probabilmente ricordavo una sua foto con una pipa, vista chissà dove. Per i riferimenti letterari di cui parli, mi piace pensare che James Joyce e Ettore Petrolini si siano conosciuti e abbiano formato un duo musicale, e si siano dati come nome Fadà. ‘Polvere di musica’ è il loro straordinario album d’esordio.

Gli effetti sonori in quasi tutte le canzoni del disco danno la sensazione di essere in un cartone animato. Ti piace creare questi inserti elettronici. Li trovi funzionali alla tua musica?
Delle volte mi è capitato che il fruscio croccante prodotto dalla puntina del giradischi sui vinili fosse una cosa, oltre la canzone, altrettanto bella da ascoltare. A mio avviso la musica deve evocare qualcosa di più della rappresentazione della realtà. Se ci pensi, il rock e tutti i suoi derivati fino alla dance non esisterebbero senza una contraffazione del suono. Lo sapevano sin dall’antichità: per recitare e impressionare l’audience indossavano delle maschere. Gli inserti elettronici sono come le figure in un quadro: le immagini dipinte sono funzionali alla creazione della scena, così lo sono gli inserti elettronici, sono parte del gioco musicale.

Elettronica e strumenti acustici. Ami i contrasti?
Non particolarmente, ma per trovare nuove sonorità, necessariamente devi provare nuove combinazioni. Come quando le donne guardano nell’armadio, provano almeno tre o quattro vestiti prima di scegliere l’abbinamento giusto, così faccio io, ma con i suoni.

Chi ti ha ispirato quella particolare figura femminile che canti ne ‘La donna cervello’?
Il brano è nato come gioco canzonatorio su una mia amica.

Hai deciso di installarti nei pensieri di quella donna e di raccontarla come se tu fossi lei. Come mai? Raccontarla in prima persona era l’unico modo per rendere la parodia. Non è stato difficile: da ‘Ulisse’ di Joyce, con il personaggio di Molly Bloom, a ‘Vanity Fair’ c’è una letteratura immensa da cui attingere, senza tralasciare le donne che realmente conosco. Mi sono divertito molto a ‘pensare’ da donna, anche perché credo che in molte cose sia superiore all’uomo, già solo per il fatto di essere sopravvissuta alla mentalità che ha dominato millenni di stupida storia di machi convinti.

‘Polvere di musica’ attraversa vari generi musicali: pop, rock, folk, dance, accenni di rap e persino jazz (ne ‘Il poeta’). A quale ti senti più vicino artisticamente?
A nessuno di questi, ma tutti mi hanno dato qualcosa: il rock l’energia, il jazz il colore, il folk il viaggio e il racconto, il pop il senso della melodia, la dance il ritmo che ti fa muovere il culo, il rap il gioco con la lingua e la metrica. Quello che non faccio è chiudermi dentro uno stile; d’altronde la personalità e le sensazioni della vita hanno mille sfumature.

Parli del tuo disco come di un “viaggio notturno tra i paesaggi metropolitani delle capitale europee”. L’Europa musicale e l’estero, in generale. In base alla tua esperienza, l’Italia, in fatto di musica, ha da imparare dalle altre nazioni?
In Italia i musicisti sono considerati degli hobbisti e questo è la conseguenza della mentalità mediocre di molte famiglie italiane, per le quali l’impiego pubblico rimane ancora la più alta aspirazione possibile. La musica non può prescindere da un aspetto imprenditoriale e di iniziativa privata; per quest’ultimo aspetto noi siamo ancora indietro. Faccio un altro esempio. Provate ad ascoltare le esibizioni live di un qualsiasi gruppo in uno show televisivo americano (come quello di David Letterman), e poi confrontatele con quelle delle trasmissioni musicali italiane: il suono non è mai dello stesso livello qualitativo e questo perché in Italia è trattato come un fatto secondario. In Italia, anche l’hip hop sa di accademico. Ma il margine per migliorare c’è, basterebbe avere il coraggio di far fuori una certa mentalità e cambiare, ma lo dobbiamo volere.

Come porterai questo progetto sui palcoscenici? Stai pensando, oltre ai concerti, anche a qualcosa di più teatrale?
Per ora le canzoni del disco sono state ridotte all’osso e riarrangiate per trio, ovvero basso, chitarra e batteria. Nella sequenza dei brani infilerò qualche ‘slittamento scenico’, piccoli elementi recitati e delle registrazioni che faranno da collante tra un brano e l’altro. Se poi per strada ci sarà qualche impresario disposto a finanziare uno spettacolo basato su un’eventuale scrittura di scena di ‘Polvere di musica’, Fadà è pronto per alzare un bel polverone colorato. Grazie a News mag per l’intervista e Stay Fadà.

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