Beatles, nuova edizione italiana del libro sulla genesi di ‘Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band’

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La musica è fatta di movimenti meccanici: gente che batte, soffia, pizzica, gratta; ma alla fine il risultato non è tangibile, è un sogno”. Tradurre l’utopia in note era l’obiettivo dei Beatles e di George Martin, loro produttore all’epoca della realizzazione di ‘Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band’. Era una visione onirica e improba che mirava a raccogliere le fantasie e a rinchiudere le allucinazioni (indotte oppure spontanee) dentro un nastro magnetico. Le parole di Martin svelano l’impulso incontenibile che ha consentito la nascita di uno tra i capolavori indiscussi della musica popolare contemporanea e spalancano le porte del tempo per richiamare ‘L’estate di Sgt. Pepper’ (La Lepre Edizioni). Il libro narra le intuizioni, gli inciampi, le inquietudini e le fortune che hanno portato, nell’estate del ’67, alla pubblicazione del più celebrato disco dei Beatles. Le 250 pagine sono un must per i cultori dei Fab Four e un imprescindibile riferimento per chi vuole sbirciare tra le pieghe del tempo che racchiudono i semi da cui sono germogliate canzoni entrate nell’olimpo della musica internazionale.

Questa nuova edizione italiana – tratta dall’originale ‘Summer of love – The Making of Sgt. Pepper’ del 1993 – si fregia della prefazione di Stefano Bollani, dell’introduzione dello stesso George Martin e dell’efficace traduzione di Paolo Somigli (direttore del mensile Chitarre). A tratti personale diario dalla compilazione cronologica, a tratti lucida dissertazione sul fermento dei sixties, ma soprattutto ricostruzione storiografica, l’opera di George Martin è sincera e mai agiografica. Sir George è il narratore che, con il tono affabulatorio dello scrittore consumato, rievoca gli esperimenti compiuti nel laboratorio creativo allestito ad Abbey Road durante le fasi di realizzazione, take per take, dei brani inclusi nell’ottavo album in studio della band. Ma non solo, Martin ricorda i dettagli, infarcisce le pagine di aneddoti e riporta i colloqui che tracciano un profilo inequivocabile delle personalità di John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr, e delle dinamiche interne al processo decisionale. L’autore sgombera subito il campo da equivoci rammentando quanto, per lui e i Beatles, la musica fosse un affare dannatamente serio, da gestire secondo aspirazioni artistiche e ritorni commerciali.

Un binomio molto spesso inconciliabile ma, stando ai risultati e alle conferme storiche, gestito nel migliore dei modi. Martin racconta di quanto ha dovuto assecondare i desideri dei quattro e di quanto ha penato per limitare la genialità debordante di quei musicisti troppo in anticipo sui tempi. Artigiano del suono e raffinato arrangiatore, Martin ha plasmato idee rivoluzionarie tagliando le frange più estreme del suono con metodo, tecnica e pragmatismo. A volte con rigore, a volte a malincuore (visti i limiti tecnici dell’epoca), George Martin, musicista di estrazione classica e cultore delle tecniche sperimentali di registrazione, ha cesellato l’esorbitante talento di ragazzi che, ad ogni incisione, correvano il rischio di rimanere arsi tra le sacre fiamme della creatività. Lui, un po’ “Duca di Edimburgo”, un po’ “quinto Beatle”, lo impediva, individuando la scintilla buona a far sprigionare solo il fuoco vivo dell’arte. E’ un Lennon dimesso e perennemente insicuro della propria vocalità quello che accenna con la chitarra acustica un pezzo anomalo e sublime. Vestito a dovere, quel brano scarno e monotono diventerà, grazie alla lungimirante visione di Martin, “la canzone più originale e creativa nella storia della musica pop”. ‘Strawberry Fields Forever’, esclusa dalla compilazione finale di Pepper, ma destinata in origine a farne parte, è per il produttore la canzone psichedelica per eccellenza, quella che ha divelto barriere, erette sugli stereotipi con la violenza inarrestabile del flusso di coscienza traboccato dentro tutto il disco.

‘Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band’ ha avuto il grande merito di scardinare anche le rigide regole dell’illustrazione di copertina, con quelle sagome a celebrare miti, guru e peccatori. La sua particolarità eccentrica e avanguardistica è entrata prepotentemente nel dibattito pubblico, le liriche sono state motivo di polemiche sui media. Qualcuno interpretava quelle parole leggendoci dentro riferimenti sulle droghe, mentre i giudizi della critica coprivano un arco valutativo che includeva l’osceno (“eccessivo, ridondante, disordinato […] un prodotto costruito con effetti speciali, sorprendenti quanto disonesti”) e il sublime (“una moderna colossale opera lirica”). Persino i politici del tempo, inclini ad inquietanti manie recensorie, misero becco e si schierarono in fazioni: chi per delegittimare la musica pop, chi per accettarne la sua ascesa. Pepper era, in fondo, un grande album che fotografava, con immagini vivide e suoni pionieristici, gli anni ’60. Secondo George Martin, quel disco registrava le mode e le direttrici culturali di una generazione: la psichedelia, la passione per le filosofie orientali e il movimento pacifista con tutto un nugolo di sogni e ideali. L’album conta 13 componimenti che, per essere completati, richiesero oltre cinque mesi di lavoro. Mesi in cui emersero la personalità sognante di John, l’inventiva di Paul, la competenza di George e l’intuito di Ringo ovvero le componenti di un gruppo che aspirava alla perfezione e che la raggiunse con i consigli di un quarantenne dai modi aristocratici e dalle indubbie conoscenze musicali, il quale sembrava poter incanalare i loro sogni con l’ausilio di manopole, levette, pulsanti e microfoni. Anche se “la musica è un sogno che non si può toccare, o guardare”.

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