Josh Ritter, la fine di un amore e la voglia di ricominciare in ‘The beast in its tracks’

josh_ritter (photo credit Laura Wilson)

Josh Ritter è il più classico dei songwriter americani. Trae ispirazione dagli inciampi dell’esistenza e traduce in musica (dis)avventure personali. ‘The beast in its tracks’, suo ultimo disco, fotografa il momento successivo al suo divorzio, quello dell’elaborazione del lutto: un requiem consumato tra sbronze ciclopiche e nottatacce dense di incubi.

L’album è una seduta psicanalitica che cerca di razionalizzare ciò che non è affatto razionale. E così, tra il dispiacere per il fallimento e la voglia di ricominciare, Josh sfila le spine dal fianco, una ad una, per lenire un supplizio che non dà tregua, mentre cede al richiamo di un’altra donna che ha già il suo “cuore in tasca” (‘In your arms awhile’). L’arco sonoro si dipana attraverso la sublimazione di sentieri semiacustici ampiamente sperimentati dai capiscuola del genere, ma che mantiene inalterato lo splendore semplice ed efficace di ciò che risuona accessibile al primo ascolto. Ben lungi dalle pagine deliranti e aspre di ‘Blood on the tracks’ di Dylan e dal tetro sconforto di ‘Tunnel of love’ di Springsteen, l’album di Ritter è diario che distilla franchezza senza censure, dalla fugace introduzione di ‘Third arm’ al soul (camuffato) di ‘Lights’ passando per la splendida ‘Joy to you baby’, presa di coscienza della perdita e momento di riscatto.

“Il mio matrimonio è finito il primo novembre 2010. Era una mattina fredda e ventosa a Calgary, Alberta, ed io ero in tour. Ho riattaccato il telefono e mi sono guardato intorno”. E’ con una chiamata che si chiudono i diciotto mesi di vita coniugale del musicista. Lontano dalle luci del palco e dagli applausi della platea, mentre la carriera naviga con il vento in poppa, la vita sentimentale cola a picco in una sorta di compensazione tra equilibri. ‘The beast in its tracks’ è poetica dell’intimismo che narra non tanto le cause della frana, quanto il cono della valanga che seppellisce e costringe a boccheggiare in un’angusta bolla d’aria. E’ un album che raccatta schegge di delusione di un rapporto andato in pezzi e ne espone il seguito, quando la logica convince a gettare via tutti quei frammenti che mai ricomporranno il puzzle. Ed ecco affiorare l’indole autografa, lucida e romantica del cantautore più puro. Josh imbraccia la sua chitarra acustica e canta il suo disappunto, le mancate promesse, le mezze verità, gli ostacoli che appaiono insormontabili e i dubbi corrosivi che logorano anche la più misera ambizione di autoassoluzione.

‘The beast in its tracks’, registrato tra il 2011 e il 2012, delimita lo scenario in cui convivono asserzioni di vecchi saggi, tristi presagi e molti disagi. Uno scrigno dove sono riposte le ossessioni di una relazione conclusasi contro ogni previsione, dove sono stipati rancore e romantico vittimismo. Un forziere che Ritter schiude per fare luce su uno spettacolo dell’assurdo, per rifletterci sopra e sorridere in forza di una narrazione diretta e ritagliata sull’uso misurato degli strumenti. Anche le più amare rappresentazioni e le condizioni grottesche sono ammantate da leggerezza atipica per l’argomento trattato. Tredici brani che poggiano su delicate armonie e canto espressivo, in un folk solo in parte gravato da cupezza che, tra lampi di ironia e squarci di positività, è capace di catturare l’ascolto. Josh Ritter esalta il valore delle proprie composizioni con un rito freudiano capace di quietare il tormento. E meno male, perché questa analisi introspettiva tramanda una parte importante del più classico songwriting americano.

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