Jeff Ament dei Pearl Jam alla prova con il progetto parallelo RNDM. La recensione di ‘Acts’

Una manciata di lettere designano nome del gruppo e titolo del disco: RNDM, ‘Acts’. Un parsimonioso formalismo estetico che contrasta con il florido risultato di una proposta dalle diverse anime. I RNDM nascono per volere di Jeff Ament, stacanovista del rock e membro fondatore dei Pearl Jam. Joseph Arthur e Richard Stuverud completano un gruppo che esalta le sfaccettature del rock made in Usa, professando credo punk e dottrina funk. Dietro la consolle, a garantire un suono rocciosamente liquido, Brett Eliason (figura di spicco nel suo campo).

Sin dall’incipit di ‘Modern Time’, i bassi di Ament scivolano nei polmoni e li fanno sobbalzare ritmicamente. Il brano è piacevole, ma il vero album inizia dopo. Sotto la crosta abusata del side project si palesa un power trio affiatato, dal cuore palpitante e colmo di ottime intuizioni. Del resto Ament e Stuverud, vera istituzione a Seattle, si conoscono da sempre. Erano insieme nei Three Fish e nei Tres Mts., ma Stuverud ha raggiunto la fama soprattutto con la lunga militanza nei Fastbacks, band seminale per l’intero movimento musicale del nord ovest. Ament e il cantautore Arthur, con questo lavoro, finalmente raggiungono una collaborazione ben più stabile delle sessioni a singhiozzo degli ultimi dieci anni, suggeritrici del moniker affibbiato al gruppo (RNDM è la contrazione di ‘random’, casuale, irregolare). Un impegno concordato dopo il settembre 2011, quando i Pearl Jam festeggiarono i vent’anni di carriera con un concerto ad Alpine Valley. Tra i molti musicisti-amici accorsi alla celebrazione ci fu anche Arthur. L’evento dettò l’occasione per impegnare pochi giorni in studio, nel Montana, per catturare l’alchimia sprigionata durante jam session tanto energiche quanto brevi. Un connubio tra potenza e sintesi che risalta nei selvaggi 101 secondi di ‘Throw You to the Pack’ e che serpeggia nell’ostile incedere di ‘Look Out!’.

Altrove ‘Acts’ limita gli up-tempo in favore di suggestivi mid-tempo, come nella splendida ‘Darkness’, che esordisce foderata dal canto sommesso e rauco di Arthur, interprete di un refrain a briglie sciolte, sferzante e liberatorio. Una canzone di confine tra le correnti di un disco che esprime il lato melodico, solare e contagioso con ‘Hollow Girl’ e che si apre alla tradizione folk con ‘Cherries in the Snow’, modellata tra chitarra acustica e armonica. Tra i dodici brani rientrano anche passaggi che paiono dotte citazioni. ‘Walking in New York’, notturna e riflessiva, ripropone il gioco di sponda tra chitarra, basso e cori che ha caratterizzato certa produzione dei Red Hot Chili Peppers. Diametralmente opposto è il richiamo di ‘Williamsburg’ che, con un marcato wah-wah chitarristico, incornicia cori in falsetto e cantato che rimandano ad atmosfere riferibili agli U2. Ad Ament va riconosciuto il merito di lanciare questo progetto con la consapevolezza dell’accademico, ma senza far pesare il suo rango ai compagni di ventura. Un profilo sobrio, una personalità equilibrata confermata anche da Eddie Vedder, che recentemente ha offerto una chiave di lettura emblematica: “Some people call him Jeff Ament, I just call him my brother (Alcuni lo chiamano Jeff Ament, io lo chiamo fratello)”. Be’, forse dovremmo tutti chiamare fratello un autore che ha il pregio di regalare buone vibrazioni. Una prova convincente dei tre non debuttanti, delle tre non matricole, delle tre non meteore, dei tre RNDM.

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