Livia Risi, regista della moda e ideatrice del Trasformher

“Togli”, le diceva suo nonno. “Più un abito è semplice, più è pulito e più si arriva all’essenza”, racconta Livia Risi, nipote di uno dei più importanti registi e sceneggiatori del cinema italiano. Ha l’arte nel dna Livia, stilista e creatrice di abiti e accessori di moda originali. Si diploma nel 2004 all’Accademia di Costume e Moda di Roma, che dà un imprinting più ‘barocco’. “Invece i miei vestiti sono asciutti, come la cultura asiatica che non ha decorazioni né fronzoli, ma solo forma”. Di cinematografico ha l’atteggiamento, la presenza, lo sguardo, e la passerella con il tappeto rosso sempre sotto i piedi.

Aveva tre anni quando ha cominciato a sforbiciare e creare i suoi modelli. Tra un abito e l’altro che vediamo nel suo atelier spunta qualche oggetto che richiama il grande schermo: orecchini fatti con le diapositive o cappellini con la pellicola. “Nulla accade per caso, ma per me è stato così”, spiega la ‘Ciumachella’ Livia Risi. “Il materiale cinematografico per me è familiare, io l’ho usato manualmente e fa parte delle mia creazioni come fosse un ‘frame’. Tutte le mie collezioni sono cinematografiche in fondo. C’è un filone, una continuità, ci sono dei riferimenti a dei Paesi come la Russia, per esempio”.

Appassionata di matriosche, ne ha diverse, grandi e piccole. Con alcune minuscole ha fatto delle graziose spille. “I miei abiti raccontano una donna in viaggio, in movimento, dinamica, moderna, ma che conserva l’eleganza del passato”. La moda di Livia, un po’ com’è lei, è un “taglio senza scadenza”. “Io tiro fuori la donna che indossa l’abito e non il vestito che copre la donna”, dice fiera e sorridente, mentre le brillano gli occhi che esprimono la sensualità della “donna androgina degli Anni ’20” come ama definirsi. È veloce di mente, razionale e romantica, sognatrice e realista, un po’ maschiaccia e ‘caciarona’, verace, romana de Roma, una ‘capetta’ che fa tendenza, una leader che attira seguaci sin dai tempi di scuola. Ora è la direttrice e ideatrice della sua sartoria. Siamo nel suo laboratorio boutique di moda a Trastevere, il rione di Roma dove è cresciuta e dove si sente a casa.

Quale dono ha ereditato da suo nonno?
Lui disegnava tantissimo, usava i pennarelli Stabilo (e, mentre parla, alza lo sguardo indicandone due scatole che le regalò proprio suo nonno Dino, ndr). Lui non cancellava mai, era ‘buona la prima’, e anche io disegno così, senza correggere, ma uso le penne Bic.

Cosa pensa di avere in comune con lui?
Mio nonno era limpido. Come lui anche io sono indipendente, schietta, e guardo dritto negli occhi. E poi, ne ho ereditato il cinismo, che per me è una virtù, non una connotazione negativa. Purtroppo non sono curiosa come lo era lui e come le sue domande, che faceva con uno scopo: elaborava un pensiero e andava avanti con il suo film.

Prima di avviare il suo atelier circa sei anni fa, Livia ha anche lavorato come assistente costumista per alcune fiction televisive.

Perché non ha continuato a lavorare nel cinema?
Il mio sogno è vestire personaggi come Maria Antonietta. Se il cinema italiano raccontasse storie con protagonisti del genere, allora io farei la costumista molto volentieri, ma nel vestire un poliziotto di una serie tv, per esempio, non vi è alcuna fantasia.

Lasciando da parte, per ovvie ragioni, suo padre Claudio e suo zio Marco, chi sono i suoi registi preferiti?
Pappi Corsicato e Emma Dante.

Quali film, invece, le ricordano di più suo nonno, quello che per lei era solo un nonno?
Lo vedevo poco, una volta ogni tre mesi. Ma ho conosciuto la sua parte più intima e romantica in ‘Un amore a Roma’, (pellicola del 1960, ndr) un film che viene nominato poco. Poi, anche ‘Poveri ma belli’ (1957) e ‘In nome del popolo italiano’ (1971).

Dall’arte passiamo alla vita di tutti i giorni, perché i suoi abiti si indossano sempre, in ogni situazione. Cos’è per lei la volgarità?
Non essere se stessi, sia fisicamente sia nei modi. Se uno tenta di essere elegante, ma non lo è, sta recitando una parte che non gli è propria e quindi risulterà volgare. Lo è anche chi trasforma il proprio corpo, quasi da non essere riconoscibile. Per me quella è volgarità.

Qual è l’abito che più la rappresenta? L’abito che parla di lei?
Camicia bianca lunga e pantaloni neri stile Greta Garbo. Non ho mai portato i jeans, neanche al liceo.

E qual è l’abito che ha creato e che parla di lei quando si sente diva?
L’abito Baires, ispirato al mio viaggio in Patagonia. È elegante, di jersey, tessuto pratico e comodo, che si muove e che non è bloccato come la lana, per esempio.

L’abito fa il monaco?
Eccome se lo fa!

La sua invenzione si chiama Trasformher, un nome che nasce dalla fusione di due parole, una italiana e l’altra inglese. ‘Trasform’, azione all’italiana e non ‘trans’form all’inglese, anche perché siamo a ‘Tras’tevere, appunto, e la parola ‘her’ che in inglese vuol dire ‘lei’. Il modello nasce nel 2009, è un copyright mondiale e ha subito una lenta formazione come un feto che cresce di mese in mese. “Ora è lui, è finito e non subirà altre trasformazioni. All’inizio era una gonna, poi una gonna lunga, poi un sari, fino a diventare il mio ‘Trasformher’, un abito di jersey che si indossa in diversi modi e ogni volta sembra diverso”. Livia Risi è unica, come lo sono le sue idee che nascono a volte anche “dalla noia, dalla stanchezza, dagli errori” e dai sogni. La lasciamo mentre esce sulla porta del suo negozio per fumare una ‘bionda’, e quando lo fa, appoggiata di lato alla porta a vetri, è sexy e ironica, armoniosa e dannata come Marlene Dietrich, occhi blu, intensi, diretti, e un viso che sembra disegnato su misura per i canoni della bellezza in assoluto.

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