Roberto Vecchioni, al Festival di Sanremo canta l’amore universale

Roberto Vecchioni non ce l’ha fatta a nascondere la commozione. Lo abbiamo incontrato in occasione della conferenza stampa sanremese al Palafiori: il professore è stato accolto da una standing ovation e non è riuscito a trattenere le lacrime. “Con la mia canzone ho voluto cantare l’amore universale, la pietà per le persone. È un concetto alla De André. Il suo insegnamento è straordinario. Questa cosa l’ho imparata da lui”

Se l’aspettava questa accoglienza?
A dire il vero potevo aspettarmela ma non così bella e appassionata.

Chiamami ancora amore: in che circostanze è nata questa canzone?
Ero a Roma quando l’ho scritta. Non riuscivo ad addormentarmi e mi sono venuti in testa alcuni flash di sogni. Mi sono ricordato di quando, da bambino, giravo per i prati della Val d’Aosta, dove ero solito trascorrere le vacanze. Mi pareva tutto bellissimo e, tra me e me, dicevo “Com’è bella l’Italia”. E poi altri flash di quando andavo all’università e parlavo con i miei amici della voglia di cambiare, e discutevo con loro del futuro, che vedevamo roseo. Da quel momento ho imparato, poco alla volta, il valore della cultura. La cultura salva da tutto. Imparavo e leggevo, e non mi bastava mai”.

Che cos’era per lei la cultura quando aveva vent’anni?
La cultura era innamorarsi di una bella donna o di un quadro, solo guardandoli, oppure certe bellissime canzoni francesi, come quelle di Yves Montand. Poi sono arrivati Tenco e De André, i grandi cantautori che ho amato e imitato. L’Italia era meravigliosa con i suoi artisti e io ho avuto poi la fortuna di parlare di tutte queste cose a scuola con i miei alunni. La cultura è vita e verità. Non è una falsificazione. Una canzone semplice come Resta cu’mme è più bella di una sinfonia perché è cultura vera. C’è più altezza di poesia in questo che in tantissimi versi di grandissimi autori conclamati, anche italiani, che dalle pagine delle antologie letterarie, invece, rompono solo i coglioni.

Cosa rappresenta, per lei, la canzone che ha portato al Festival di Sanremo?
È tutto quello che amo. Quando Tucidide scrisse il discorso per Pericle per la democrazia ateniese disse due cose da tenere sempre a mente. La prima è: “Noi accettiamo chiunque venga dall’esterno, perché ci porta lavoro e cultura”. La seconda, ancora più bella, è: “Il fondamento della democrazia non è la maggioranza, ma il consenso del dissenso”. Tutte queste cose che ho citato mi si sono affollate dentro. Non voglio fare politica spicciola. Fa ridere parlare con le bandiere al vento. Lo lascio fare agli altri. Le canzoni devono parlare da sole. Quello che ho messo in questo brano è di tutti, non soltanto mio. È di tutti anche quella immensa frase di Eduardo De Filippo, che è il centro di Chiamami ancora amore, e cioè ‘Adda passà a nuttata’ ovvero questa maledetta notte dovrà ben finire. Non sono un profeta ma un romantico e un idealista. Finché ci saranno quelli che hanno i nervi, il sangue e la poesia per dire queste cose, questa nottata finirà.

Pensa che i giovani siano sensibili oggi alle tematiche che ha affrontato nel brano?
Penso di sì, ma sono anche parecchio deviati su pseudo-valori che non hanno nessuna consistenza. La cultura non è soltanto sapere le cose: questo è solo nozionismo. La cultura è sapere il senso delle cose. Io credo che i giovani lo sappiano ma sono anche in una situazione tragica con pochissime prospettive per il futuro. Non è fondamentale vincere nella vita, ma essere sempre in armonia con se stessi e con le cose, e tentare di essere coerenti.

Nella sua canzone parla di ‘libro vero’. Cos’è?
È il libro scritto con verità e non un artefatto, costruito solo per far commercio. Il libro vero è quello con la copertina, ‘quello che sporchi i fogli e ti tagli il dito sulla pagina’.

Cosa nasconde il verso finale ‘Perché noi siamo amore’?
La mia intenzione era dire che bisogna parlare d’amore. È una specie di piccolo rito. Quando lo fai, elimini l’odio. È per questo che ho usato delle sgrammaticature nella canzone. Ci sono delle frasi che non reggono in grammatica italiana, come l’uso non corretto dei pronomi relativi. Nel linguaggio parlato non diciamo mai “La notte in cui ho visto i tuoi occhi” ma “La notte che ho visto i tuoi occhi”. È sbagliato ma più vero. Ho scritto questa canzone con sincerità, come mangio. Anche questo è il senso dell’amore.

È stato scritto che lei è di un livello superiore rispetto al resto dei cantanti in gara. Si sente come un pesce fuor d’acqua?
Non mi sento affatto fuori luogo qui a Sanremo. Una canzone può essere bella a qualsiasi livello. Fabrizio De André diceva che non è vero che un quadro di dieci metri per venti sia più bello di una miniatura. Io non mi sento più alto. Sono su un piano di ricerca letteraria e musicale un po’ diverso. Non mi sento migliore di altri. Sono peggiore solo quando scrivo cose noiose, che parlano esageratamente di me e non arrivano al pubblico. Sono migliore, invece, quando tocco il cuore della gente. Anche l’ascoltatore, però, deve fare uno sforzo, mettendoci un po’ di impegno.

Ci delle canzoni, in questo Festival, che non necessitano questo impegno?
Ci sono delle canzoni di cui non ho capito una parola. Sentivo solo la musica. Probabilmente le parole erano belle. Oggi c’è il vezzo di dover mettere moltissimo ritmo e meno parole.

Perché è venuto al Festival di Sanremo?
Ci sono dieci milioni di persone che guardano il Festival. A volte il pubblico, quando sente il mio nome, dice: “Ah, quello lì è troppo complicato, non lo ascolto”. Invece, sentite questa canzone. È forse complicata? Dall’altro lato, però, temevo di essere travisato. Chiamami ancora amore, in fondo, è anche un testo politico ma non volevo che fosse preso come un attacco contro una certa parte politica. È dentro le parole quello che voglio dire, non c’è bisogno di spiegarlo.

Prima che iniziasse il Festival, ha dichiarato: “Vengo a Sanremo per vincere”…
Certo, non venivo qui per fare la figura del coglione (ride, ndr).

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